Il 4 aprile scorso, presso la Scuola Holden di Torino, l’associazione B#art ha organizzato un incontro con il fotogiornalista Sergio Ramazzotti dell’agenzia ParalleloZero. Il titolo era “oltre gli stereotipi del fotogiornalismo”.
Reporter attivissimo, reduce da avventurosi servizi in luoghi disparati e spesso pericolosi, Ramazzotti ha parlato con voce inaspettatamente pacata e sommessa del mestiere di fotografo giornalista oggi, avversando con forza chi lo da’ per spacciato: c’è e ci sarà ancora un gran bisogno di informazione.
Associa il tema trattato da Ramazzotti con il mio scarabocchio corrispondente:
- Il citizen journalism secondo alcuni minaccia il fotogiornalismo professionale (le parole “citizen journalist” e “sicumera” vengono ripetute parecchie volte).
- Non ci sono più angoli inesplorati del mondo, ciononostante ci sono sempre storie da raccontare.
- Per fare un esempio di tema non correntemente trattato ci mostra un intero reportage da lui realizzato accompagnando un uomo italiano che ha viaggiato verso la Svizzera per sottoporsi a un suicidio assistito (un lavoro fatto di moltissime immagini, quasi un film a fotogrammi: l’ho trovato davvero emozionante).
- Per ragionare su quanto una immagine possa parlare senza parole Ramazzotti ci mostra una sua fotografia di un neonato africano, sfidandoci a dire se è morto o vivo.
- Le immagini di reportage violente vengono censurate al pubblico mentre la violenza al cinema – ad esempio in “The hateful 8” di Tarantino – viene ricercata.
- I giornali che pubblicano foto sono pilotati dagli inserzionisti e dalle loro perverse logiche commerciali: a questo proposito cita insistentemente Rolex.
- Il reporter può sottrarsi a queste logiche rivelando la verità al pubblico, che informandosi può formarsi un’opinione.
- Esempio di disinformazione: durante l’epidemia di Ebola in Africa molti italiani credevano che si potesse prendere la malattia venendo a contatto con un immigrato. Ramazzotti ha documentato la crisi di Ebola in Liberia.
Io c’ero. 😀