Georges Perec è stato una specie di scienziato della letteratura, un umanista molto razionalista, un ossessivo leggero e libero capace di far parlare gli oggetti e i palazzi e di donar loro un’anima semplicemente enumerandoli in tassonomie dettate dalla sua sensibilità di spettatore del mondo.
In questo libriccino si chiede cosa è lo spazio, da quello bianco della pagina a quello di un letto, di una stanza, di una città o del mondo intero: e con semplici considerazioni, elenchi di elementi visivi ed esercizi di osservazione che si ripropone di fare – come se si trattasse di un personalissimo quaderno di appunti – insegna al lettore a vedere. Leggerlo mi ha riportato al famoso manuale “Disegnare con la parte destra del cervello“ di Betty Edwards, dove ci si sforza di far vedere all’aspirante disegnatore il mondo per quello che è, eliminando i costrutti mentali che impariamo a sovrapporgli fin dall’asilo.
Per questo motivo “Specie di spazi” è anche un libro molto fotografico. Uno degli esercizi propone: “Osservare la strada in maniera sistematica […] annotare quel che si vede. C’è qualcosa che ci colpisce? Nulla ci colpisce. Non sappiamo vedere“. Questa condizione di osservatore vergine è proprio quella in cui aspiro a trovarmi quando fotografo, perché riporta alla gioia della scoperta del mondo e al piacere di vedere.
Il libro è interessante anche per i risvolti architettonici e urbanistici (“cos’è un quartiere?”) e contiene un’anticipazione di quel monumentale labirinto che è “Vita istruzioni per l’uso”, che qui compare come idea per una futura opera.